Gelateria Bio

Ci troviamo ad Urbino, la città di Raffaello e uno dei borghi più belli e importanti del Rinascimento italiano. Il centro storico di Urbino è da vent’anni patrimonio dell’umanità UNESCO.

E’ proprio dentro le mura di questo meraviglioso paese così suggestivo che si trova la gelateria Raffaella di cui vi parleremo oggi! Una piccola realtà semi-biologica di Raffaella Paci che abbiamo intervistato per capire la storia della sua attività e il motivo della sua scelta Bio.

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Ciao Raffaella! Ci racconti, come è arrivata ad Urbino?

Sono nata in provincia di Brescia, perché i miei genitori si sono trasferiti lì per lavoro, ma quando avevo circa vent’anni sono tornata ad Urbino, il paese d’origine dei miei genitori e non sono più andata via, un po’ per le amicizie ma anche per il bel posto. 

 

Parlando della gelateria, quando è nata più o meno? 

L’ho aperta circa 6 anni fa, prima c’era tutt’altra cosa, c’era un negozio di abbigliamento e ho dovuto ripartire da zero. Ho dovuto trasformare il negozio e adattarlo per la mia attività. Così ho iniziato un’avventura, anche se da ragazza avevo già fatto questa esperienza. Poi il caso ha voluto, non so il come o il perché nemmeno io, ma mi sono voluta ributtare in questo lavoro.

 

Come mai la scelta Bio? Da dove è nata?

Quando ho deciso di aprire quest’attività avevo comunque intenzione di proporre un gelato di una certa qualità e diverso dalle gelaterie che c’erano in questa città. Comunque ho alcuni gusti biologici e altri non, dunque non è proprio tutto biologico, però mi piace molto ricercare e fare cose molto naturali. Non uso cose chimiche, coloranti, né grassi idrogenati. E’ una scelta che ho voluto fare perché comunque mi piace, mi piace il mangiar sano, ecosostenibile. So che a livello economico ha un costo, però siccome volevo lavorare in un determinato modo, standoci io e mettendoci la faccia, investendo anche parecchi soldi perché aprire un’attività dal niente, come una gelateria, è molto costoso, dunque anche le materie prime costano molto e anche i prezzi variano di anno in anno, perché va a seconda del raccolto. Ad esempio il pistacchio si raccoglie ogni due anni, questo è l’anno che non si raccoglie e dunque costa molto di più se vuoi un determinato pistacchio. Quindi questa scelta etica che ho voluto fare è anche perché personalmente tengo alla natura, mi piace servire ai clienti un buon prodotto.

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Queste materie prime biologiche che lei tratta, da dove vengono? Da chi si rifornisce?

Non sono proprio a km0, perché mi servo da un’azienda del riminese che è da tanti anni in questo settore ed è sempre molto all’avanguardia sul discorso della ricerca, del biologico e del sano. Loro prendono le materie prime e le lavorano loro. Anche questo mi è piaciuto, non le prendono già lavorate. Prelevano le materie prime da determinate zone d’Italia autoctone, dove ci sono queste agricolture. Alcune cose le compro anche a km0 come la frutta, le amarene se sono della zona. Però comunque devono sempre avere tutte le autocertificazioni, schede tecniche, che in alcuni posti si fatica a trovare. Però tutti prodotti che utilizzo sono certificati.

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Quindi per lei è importante questo rapporto di fiducia..

Per me è molto importante la fiducia. Mi piace molto sperimentare, non essendo una gelateria appartenente ad una catena ed essendo artigianale, sono libera di sperimentare nuovi gusti. Ad esempio la vaniglia con del croccante e del liquore, il gusto allo zafferano dato che alcuni ragazzi hanno iniziato a coltivarlo qui vicino Urbino.. ho iniziato a sperimentare anche gusti con le spezie. Provo, se vanno, continuo a fare queste ricette, altrimenti sperimento dell’altro. Cerco di dare più scelta. Ho molti gusti senza latte per chi è intollerante, fatti con l’olio d’oliva, è tutto senza glutine. Offro varie ricette e tipologie di gelato, proprio per cercare di accontentare un po’ tutta la clientela. Diciamo che da me non si trovano gusti come il biscotto, il kinder ecc dunque una parte di mercato non l’ho presa, ma questo lo sapevo già dall’inizio. Però anche le mamme sanno che qua offro un certo tipo di prodotto e vengono qua a prendere il gelato ai propri figli.

 

Salta all’occhio il gusto Nonna Lella.. ma perché questo nome?

Il nome è per avvicinarsi un po’ all’idea della “Nutella” per questo “Lella”, ma comunque non ha il sapore della nutella, è un’altra gianduia e poi “nonna” forse per un discorso un po’ affettivo. E’ un prodotto sanissimo, ha un’altissima percentuale di nocciole, non metto lo zucchero bianco, ma c’è dello sciroppo d’acero biologico ed è tutto vegano. Quindi anche gli intolleranti possono prendere questo gelato. Cerco di usare meno zuccheri o comunque ne utilizzo diversi, ma sempre di origine naturale, vegetale.

 

Quanto è importante per lei il rapporto col cliente?

Per me è molto importante. Mi piace molto il fatto che il cliente sia informato su quello che mangia, su quello che produco e faccio, perché metto molto impegno nel mio mestiere e quando capita qualcuno che chiede informazioni io sono molto lieta di informarlo. Anche le ragazze che lavorano con me sono ben informate fin dal primo giorno, in modo da sapere ciò che stanno servendo. Ci tengo ad un discorso di trasparenza, anche per questo ho appeso qualche cartello dove si spiega la nostra etica e ciò che facciamo. 

Da quest’anno abbiamo anche due gusti dedicati al panda: fior di panda e Lampone/bambù. Praticamente per ogni persona che prende uno di questi gusti, manderà il suo contributo alle oasi del WWF, questo è un progetto in collaborazione con l’azienda da cui mi servo. La cosa interessante è che nel lampone c’è il bambù che fa da addensante naturale e fa anche molto bene, anche per chi ha problemi di glicemia il bambù non fa arrivare subito al picco glicemico perché ha un indice glicemico basso.

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Grazie mille Raffaella per la sua disponibilità!

Voi allora che aspettate? Tante novità e gusti sempre diversi e ricercati vi aspettano alla gelateria Raffaella, in questo bellissimo luogo ricco di arte e cultura, che è Urbino!

Potete anche seguire la pagina Facebook ufficiale della gelateria o il suo profilo Instagram se foste interessanti.

Il team di Read or Diet.

Siamo andati al festival delle cucine popolari autogestite.

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Siamo andati al festival delle cucine popolari autogestite, per scoprire se le forchette fanno davvero la rivoluzione.

La terza edizione del festival, quest’anno si è svolta al parco Miralfiore di Pesaro. Un posto perfetto per ospitare tanta energia e varie bancarelle tra il street food, mense e taverne autofinanziati ed autogestite, che offrono le idee,stili di vita, una cucina “al prezzo popolare”, non meno buona( se non meglio ) di molte altre, mille confronti e tanta condivisione,attraverso i tavoli di discussione ,presentazioni dei libri e soprattutto quello che farà sempre parte dell’attualità : il cibo.

Quello delle cucine autogestite popolari è un festival nato per dare la vita alla libera (e buona!) espressione degli argomenti di comune interesse ,come lo sfruttamento del lavoro nel settore alimentare e quello della ristorazione, produzione e rifornimento delle materie prime e conflittualità politica intorno ad esse e alle filiere alimentari, l’anti-specismo e in generale, il rispetto verso il produttore ,il consumatore e il consumato.

Mangiare è sempre stata una pratica collettiva, che lega tutto e tutti ed è proprio per questo ha dato luogo anche alle contradizioni, raramente pacifiche, che hanno sempre creato lo stimolo di rivendicazione politica e la ricerca di autonomia collettiva e individuale.

Sotto il sole cuocente del 20 maggio, mi sono presa il piacere di perdermi in questa esperienza, conoscere gli esponenti del festival e bermi una birra ghiacciata con loro.

Una (ma anche due), fatta con il frumento selezionato e lavorato artigianalmente,da Giacomo (per gli amici “capitano Jack”) autentica al 100% proprio come il produttore. Nato a Monza,vive a Siena, viaggia dovunque, ama la vita ,ama mangiare,ama e fa la birra per passione da qualche anno .Gli viene bene ed è un vero “pirata” in quello che fa. Le ho chiesto di descrivere la sua birra in tre aggettivi: -“Saporita, limpida e “vivanda”!”. E lo posso confermare! È il terzo anno che propone la sua birra al festival e mi ha spiegato, come ormai si è creato un forte clima di amicizia, che rende quest’esperienza sempre più bella.

Ad un certo punto, stravolta dalla fame e curiosità… La scelta era ampia ,la fame forte e tutto abbastanza invitante e appetitoso da crearmi l’imbarazzo della scelta.

Mi fermai a parlare con le ragazze “contadine” e non persi l’occasione di assaggiare uno dei loro panini deliziosi,fatti con le farine di kamut.IMG_20180522_144617.png

Due amiche di cuore ,che nelle loro differenze (una delle ragazze è vegetariana e l’altra mangia carne, ma c’è il reciproco rispetto nelle loro scelte e collaborazione) sono unite dalla passione per la cucina GENUINA . Quello che fanno, è dalla A alla Z , prodotto da loro :  farine integrali,verdura biologica, marmellate per i dolci e l’ingrediente principale-la felicità ,che ci mettono nella preparazione di ogni piatto. La loro non è una produzione lucrativa,ma volta a guadagnare per vivere e non vivere per lavorare.

Proprio questo è uno degli obiettivi principali dell’attività dei “Eat the Rich” ( Mangia il Ricco) uno dei collettivi organizzatori dell’evento, ragazzi provenienti da molte città italiane ,riuniti a Bologna e uniti dall’amore per il cibo ,ma soprattutto dalla partecipazione politica. Propongono una cucina buona alla portata di tasche di tutti , lo fanno per abbattere le ideologie produttiviste di ogni tipo, sfruttamenti e per mettere in discussione le strutture gerarchiche dirigenziali, organizzando une serie di eventi ,incontri ,pranzi e cene ogni settimana per aprirci le strade verso le conoscenze delle realtà agricole e sociali sparse in tutta l’Italia, con le quali condividere i pensieri e mangiare dagli stessi piatti.

“Eat the Rich” ,è un gruppo che si definisce una rete di cucine di socialità e convivialità, mercati e laboratori di autopruduzione, sempre pronti alla lotta.

Girovagando per il festival, conobbi anche “Sal’meni”,piccoli agricoltori ,che promuovono una grande filosofia di vita, libera,consapevole e sostenibile, ponendo l’attenzione sulla provenienza delle materie prime e sul loro consumo. Invitandoci a ritrovare “tutto quello che è vero”, attraverso mille sapori e profumi,che la Madre Terra ci offre.

Incontrai anche le bancarelle che praticavano il riciclo alimentare, proponevano cucine vegan o le pizze e pane a km0, musicisti di strada, tanti sorrisi e molto altro.IMG_20180522_144016.png

Le tagliatelle fatte con la farina di canapa.

La certezza è che le forchette fanno tanto rumore, come è giusto che sià! Il prossimo appuntamento si prevede a Livorno, quindi “vedere per credere” o meglio “assaggiare per capire” che forse, questi ragazzi, a parte fare la differenza, sono già una rivoluzione a tutti gli effetti.

I piatti portoghesi più famosi (e golosi)

Da Porto a Coimbra, per arrivare a Lisbona, vi elencheremo i piatti tipici più consumati in Portogallo!

Per questo articolo siamo andati in Portogallo in prima persona per sperimentare i gusti e le abitudini alimentari portoghesi.

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Caldo verde

Partendo dagli antipasti, è usanza portoghese servire l’antipasto senza che voi l’abbiate chiesto, che poi ritroverete inserito nel conto! (Tranquilli, potete sempre rimandarlo indietro e nessuna spesa vi verrà addebitata).

Siamo stati a Porto, nel nord del Portogallo dove ci è stata servita la salsiccia tipica portoghese chiamata “linguiça”, con un forte sapore di aglio e prodotta con sola carne di maiale. Una pietanza piuttosto grassa, ma molto saporita.

Un altro antipasto gettonatissimo è il “Pastéis de bacalhau” cioè delle crocchette di patate e baccalà, con varie spezie per insaporire il tutto. Dovete sapere che in Portogallo viene consumato baccalà in grande quantità e proprio a Porto potrete trovare un ristorante  chiamato “Casa Portuguesa do Pastel de Bacalhau” che cucina sul momento il vostro “pastèis de bacalhau” che vi verrà servito con un calice del famosissimo vino “Porto”. Non a caso la città di Porto è famosissima per questo vino, che si trova sia dolce che un po’ più secco, insomma con qualità per tutti i palati!

Un altro strano antipasto è la zuppa di verdure chiamata “Caldo verde“, un piatto che appare indispensabile sulle tavole portoghesi, molto leggera e dal sapore delicato, .

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Feijoada e Bacalhau com natas

Una curiosità è che i portoghesi non distinguono “primo” e “secondo” come facciamo noi italiani, infatti hanno un piatto unico, nel quale inseriscono entrambe le cose.

Un piatto che abbiamo avuto il piacere di provare a Coimbra (città universitaria più o meno al centro del Portogallo) è il “Bacalhau com natas”, piatto simbolo del pesce semplice e piuttosto gustoso. Alla vista sembrerebbe una sorta di purea con del pesce dentro ed effettivamente è cucinato con purea patate, baccalà ammollato e vari ingredienti per insaporirlo come cipolla, olive, noce moscata, erba cipollina, pepe nero e aglio. Il tutto viene infornato e sopra forma una crosticina dorata davvero invitante!

Poi abbiamo la “Feijoada à transmontana” che sarebbe una “fagiolata” con carni varie e spezie, il tutto cotto per molte ore, per rendere il piatto più digeribile di quanto sembri.

Questi piatti vengono solitamente accompagnati da verdure e dall’immancabile riso in bianco bollito.

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Francesinha

Una vera bomba tutta portoghese è la “Francesinha”, un piatto che vi consigliamo di mangiare da solo, perché piuttosto pesante! Originario di Porto, ma con una storia davvero particolare. Infatti questo piatto si ispira al francese “croque monsieur” un tipico sandwich francese grigliato con prosciutto e formaggio (da qua deriva il suo nome “francesinha”), questa ricetta fu riadattata al gusto portoghese da Daniel da Silva, un emigrante portoghese ritornato da Francia e Belgio nel 1960. La variante portoghese viene preparata con due fette di pane in cassetta farcite con prosciutto, linguiça (la salsiccia tipica portoghese), chipolata e una bistecca, il tutto ricoperto con formaggio fuso e infornato in una terrina di terracotta con abbondante salsa a base di pomodoro, birra e peperoncino. Questa viene poi servita su un letto di patatine fritte, con tanto di uovo fritto sopra (come se non bastasse).

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Travesseiro de sintra e Ovos moles

Per finire in bellezza parliamo dei dolci! Partiamo col dire che i dolci portoghesi sono per la maggior parte a base di rosso d’uovo, dunque potrebbero non piacere a molti.

Iniziamo con il “Travesseiro de sintra” o “Pasteis de Tentugal” dei millefoglie ripieni di tuorlo d’uovo e mandorle.

Continuiamo con gli ”Ovos moles” dei dolcetti che sembrano delle conchiglie (o nel nostro caso a forma di pesciolino) che al loro interno hanno del tuorlo d’uovo unito a sciroppo di zucchero di canna raffinato, il tutto avvolto in un sottile wafer.

 

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Pastéis de nata

Finiamo con i dolci più conosciuti di tutto il Portogallo, i famosissimi “Pastéis de nata”, che fanno gola solo a guardarli. Un dolce piuttosto classico, fatto di cestini di sfoglia con all’interno una crema all’uovo, che somiglia molto alla nostra “crema bruciata”.

 

Vi invitiamo a provare personalmente questi piatti e visitare il bellissimo Portogallo e farci sapere le vostre opinioni!

OFFICINE DEL GUSTO: L’ALTA GELATERIA A km 0

 

Quando si parla di gelato spesso e volentieri si pensa ad uno snack semplice e rinfrescante da consumare in fretta magari nelle calde ore estive. Raramente si associa il gelato alla filosofia slow food e lo si guarda nella sua interezza, in quello che può risultare essere un alimento completo e studiato nel dettaglio, dai sapori alle sue geometrie, capace di valorizzare il territorio con prodotti di eccellente qualità.

Dopo avervi portato con la mente sulle tavole di Cina, Giappone, Spagna e infine  dopo avervi parlato di pizza e olio nel mondo, insieme a Luciana Squadrilli, oggi è nel nostro interesse rimanere nei confini Italiani, per parlarvi di una specialità nata a Firenze e di un’ iniziativa che sta nascendo in Basilicata.

Read or Diet oggi è lieta di presentarvi Luigi Buonansegna, fondatore di Officine del Gusto, per parlarci di sé, della sua passione per il gelato e della sua etica produttiva. Rimanete con noi perché non ve ne pentirete.

 

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Ciao Luigi! Raccontaci le specificità altamente artigianali del tuo laboratorio e il valore aggiunto dei prodotti a km 0!

“L’idea di Officine del gusto nasce dalla mia passione per la ricerca delle materie prime e dei prodotti di eccellenza di cui la nostra regione è piena. Il mio gelato è prodotto con il latte Nobile della taverna Centomani, un’azienda agricola situata alle porte del capoluogo e a poche centinaia di metri da Pignola, dove è situato il mio laboratorio. La produzione del latte Nobile segue un disciplinare specifico che pone particolare attenzione all’alimentazione della mandria composta solo da fieno e sfarinato di cereali, senza insilati, integratori e prodotti Ogm. Parlo del pistacchio prodotto dall’azienda agricola Pistacchio di Stigliano, un’enorme realtà in una piccolissima provincia, parlo della nocciola tonda di Giffoni e della noce qualità Sorrento prodotte dall’azienda agricola Grimaldi nocciole & co. Una bellissima azienda a Giffoni sei casali.”

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Come mai stai considerando l’ipotesi di vendere il gelato su scala nazionale, partendo dall’eccellenza in un piccolo borgo?

“L’ipotesi di far conoscere “officine del gusto” nell’intera penisola è più la voglia di far conoscere le eccellenze del nostro territorio, e parlo della fragola candonga di policoro, della pera signora di Valsinni, dell’albicocca cafona, tutti presidi slow food…ma anche dalla volontà di comunicare che il gelato, fatto in modo veramente artigianale, e con l’utilizzo di materie prime di qualità è un alimento completo, sano e nutriente oltre che gustoso.”

 

Come conciliare la filosofia del km 0 con la esportazione su scala nazionale?

“Conciliare la filosofia del km 0 in realtà è molto semplice… basta avere in ogni “officina del gusto” un laboratorio, e basterà andare alla ricerca dei produttori di materie prime d’eccellenza in ogni regione, cercare le aziende agricole che producono il latte nobile e seguire in modo scrupoloso la mia tecnica di produzione… ed il gioco è fatto!”

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Immaginiamo che questa tua passione sia nata per una ragione ben precisa… è così? Ci racconti la tua storia e la tua formazione?

“La mia passione per il gelato nasce già da bambino, quando mi domandavo come potesse reggersi su di un cono un composto così morbido. Diciamo che già da piccolo guardavo il gelato da un punto di vista diverso…non ero attratto solo dal suo gusto o dal suo colore come tutti i bimbi, io volevo capirne di più. Il gelato era già allora una mia passione…passione però che per un po’ ho accantonato. Dopo la maturità mi iscrivo alla facoltà di giurisprudenza all’università di Firenze, città dove si dice sia nato il primo gelato, grazie a Bernardo Buontalenti. 

È propio nel periodo universitario che vedo crescere a dismisura la mia passione per la gelateria e tra un esame e l’altro mi ritaglio il tempo per leggere libri sul gelato e studiarne le tecniche di produzione. Decido poi di iscrivermi ad un corso di gelateria, quello organizzato dall’associazione dei “Gelatieri Artigiani Fiorentini”, qui imparo la tecnica del bilanciamento, fondamentale per un gelatiere, e capisco che la gelateria è soprattutto studio, ricerca e selezione di materie prime di alta qualità. 

Al corso seguono diverse partecipazioni al festival del gelato e la collaborazione, in uno di questi, con il maestro Ciro Cammilli che con i suoi preziosi consigli fa crescere le mie conoscenze. La mia formazione continua poi al corso master del Maestro Angelo Grasso grazie al quale affino la tecnica del bilanciamento e arricchisco le mie competenze. 

Nel frattempo concludo gli studi e con una laurea in giurisprudenza in tasca arriva la possibilità di lavorare fianco a fianco al maestro Alessandro Malotti nella sua gelateria di Scandicci. Grazie ad Alessandro e alla sua arte capisco ancora di più che la mia passione per la gelateria doveva diventare anche il mio lavoro, decido allora di tornare nella mia regione, la Basilicata e di investire nel mio paese, Pignola, per provare a valorizzare la miriade di prodotti eccellenti che la mia terra offre, attraverso quello che so fare: il gelato. 

Nasce così Officine del Gusto nella speranza di rendere felici grandi e bambini offrendo loro un gelato buono sano e genuino.”

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Benissimo Luigi grazie di averci fatto scoprire il mondo che si cela dietro Officine del Gusto e dell’ alta gelateria! Oggi la tua attività è in fase di sviluppo e sembri avere le idee chiarissime riguardo al futuro, perciò non rimane che risentirci prossimamente per sapere dell’ evoluzione dei tuoi progetti!

Grazie, tutto il team di Read or Diet.

Cucina cinese

Cibo cinese

Chi non ha mai mangiato cibo cinese? E’ un tipo di gastronomia con una gran rappresentazione in tutto il mondo.

La cucina cinese, oltre ad avere un’antica tradizione culinaria, è legata alla società, alla filosofia e alla medicina cinese. Lo stile culinario varia a causa delle differenze di area, clima, prodotti e costumi.

Yin-yang

I piatti cinesi cercano l’equilibrio. Differiscono in questo modo, cibi “yin” come verdure e frutta, e cibi “Yang”, che sono piatti fritti, speziati e a base di carne. Non cercano solo l’equilibrio tra i colori, le texture e tra il caldo e il freddo, ma anche un equilibrio tra i sapori: salato, dolce, acido, amaro e piccante. Questo è il motivo per cui vengono utilizzate numerose e varie tecniche culinarie. Nella cultura cinese, il cibo è il fulcro di tutti gli eventi significativi.

Una cosa che dovresti tenere a mente quando vai in un ristorante cinese, è che devi consumare ciò che è nel piatto, dal momento che sarebbe scortese lasciare il cibo. Questo atto significa che non ci piace quello che ci è stato servito e il cuoco lo considererebbe un disprezzo per il loro lavoro.

Tea

Anche il tè cinese è molto importante per la cultura del paese. È una bevanda ricavata dalle foglie delle piante del tè e dell’acqua bollita. Queste foglie sono elaborate con metodi tradizionali cinesi. È un alimento che può essere consumato durante il giorno, sia per la salute che per il piacere. È usato come un medicinale che cura alcune malattie specifiche e si è ritenuto che il tè abbia la proprietà di allungare la vita.

Sono classificati in cinque varietà: bianco, verde, oolong, nero e post-fermentato. Il tè verde è il più popolare e consumato in Cina.

Luciana Squadrilli. Una passione senza confini geografici.

Una vita passata fra Napoli e Roma, migliaia di chilometri percorsi in lungo e in largo per il globo, alla scoperta dei sapori più buoni e ricercati e di storie che valga la pena raccontare.

Oggi vi parliamo di Luciana Squadrilli, giornalista freelance esperta in comunicazione e marketing.
Ha iniziato a scrivere nel 2005 per gambero rosso ed oggi è autrice per riviste e libri come “Marketing del Gusto” (2015, con Slawka G. Scarso) e “Marketing dei Prodotti Enogastronomici all’Estero” (2017, con Slawka G. Scarso e Rita Lauretti) entrambi per LSWR, e “La Buona Pizza “ insieme a Tania Mauri e Alessandra Farinelli, (Giunti, 2016) con cui cura anche il blog pizzaontheroad.eu.
Collabora con varie testate italiane e straniere fra cui Gazza Golosa e Great Italian Chefs. Assaggiatrice di olio, il suo blog personale è Troppobuono!

Siamo riusciti ad intercettarla di ritorno dal Giappone e nonostante il fuso orario si è prestata volentieri a rilasciarci una breve intervista. Non ci rimane che augurarvi una buona lettura.

Leggendo il tuo cv culinario è impossibile non rimanere colpiti da una cosa: sei assaggiatrice di olii extra vergine d’ oliva, come lo sei diventata? 

Rimasi affascinata dalla lezione dedicata all’olio extravergine che tenne Marco Oreggia al master in Comunicazione e giornalismo enogastronomico del Gambero Rosso, nel 2002, scoprendo un mondo di cui non immaginavo l’esistenza. Così decisi di seguire il corso organizzato dall’Unaprol – diretto da Giulio Scatolini – al termine del quale sono diventata assaggiatrice. Da allora ho curato la prima edizione della guida Oli d’Italia del Gambero Rosso, ho collaborato a diverse edizioni della guida Flos Olei di Marco Oreggia e ho fatto parte della giuria di diversi concorsi internazionali tra cui Olive Japan, a Tokyo. Nel 2017 insieme a Simona Cognoli ho scritto un libro dedicato all’argomento: Olio. Lo straordinario mondo dell’olio extravergine d’oliva (Edizioni LSWR).

Sei un’ amante sfegatata della pizza e a tuo dire la mangeresti senza limiti geografici. Sappiamo che per lavoro sei spesso con la valigia in mano, dunque il posto più strano in cui hai mangiato la pizza? Come è stata l’ esperienza?

Se parliamo di “pizza” in senso stretto, direi da Capoli: pizzeria napoletana (associata AVPN) a Tokyo gestita da giapponesi e dove lavorano solo persone del luogo che però anche tra di loro parlano in italiano per ordinare le pizze e chiamare le comande. Pizza piuttosto buona, peraltro!
Durante un pizza tour a New York, invece, ho sofferto nel vedere i miei “compagni di avventura” – americani e indiani – chiedere dell’olio piccante o anche del ketchup da aggiungere sulla loro Margherita (anche quella molto buona) in una pizzeria napoletana!
Però mi piace anche assaggiare le “sorelle” della pizza in giro per il mondo, vale a dire le specialità locali in qualche modo assimilabili alla nostra idea di pizza. Per esempio ho adorato il khachapuri, pane lievitato ripieno o cosparso di formaggio tipico della Georgia (con diverse varianti regionali, come accade pure in Italia).

Il mondo culinario spopola nei programmi tv e su piattaforme di intrattenimento come Youtube, dimostrando di essere un settore in grado di conquistare anche la vista e la fantasia oltre che gli stomaci degli spettatori. Perché pensi che sia così attrattivo dal punto di vista mediatico?

Il cibo ha due caratteristiche principali che lo rendono molto telegenico secondo me: da un lato l’aspetto visivo, decisamente accattivante; dall’altro l’aspetto di condivisione e convivialità che è insito nel suo consumo e spesso anche nella sua preparazione, soprattutto nella cultura italiana, e che quindi invita anche alla condivisione mediatica ma lo rende pure facilmente riconoscibile a tutti. Quella di mangiare e cucinare è un'”esperienza” che in qualche modo ci accomuna tutti e su cui ognuno di sente legittimato a dire la propria… nel bene e nel male. Poi, il cibo è un portentoso elemento di racconto del territorio e della cultura in cui nasce: sempre di più, le persone sono interessate a conoscere come viene preparato un prodotto o un piatto, a vedere i volti di chi lo fa, i luoghi in cui si produce. Questo credo che sia l’aspetto più interessante della presenza – a volte effettivamente eccessiva – del cibo sui vari mezzi di comunicazione.

Il detto dice “siamo quello che mangiamo”: Luciana descriviti attraverso gli ingredienti ideali con cui farciresti la tua personalissima pizza!

Detto che mangio davvero tutto – con pochissime eccezioni – e che soprattutto quando viaggio mi piace sperimentare e conoscere i sapori locali, per la pizza resto piuttosto tradizionalista: pomodoro, fiordilatte, basilico fresco e un buon olio extravergine – e perchè no, anche una generosa aggiunta di Parmigiano – sono i “miei” ingredienti. Potrei aggiungerci anche le melanzane, in ogni forma possibile, ma solo nella stagione giusta!
Poi per lavoro, conoscenza e curiosità non mi tiro indietro nemmeno davanti ai condimenti più elaborati.

La redazione di Read or Diet è per metà italiana e per metà ispanica e in un recente articolo abbiamo confrontato il risotto allo zafferano alla paella. Sui campi da calcio l’ Italia ha spesso sofferto le prodezze della nazionale spagnola, in questo nostro  personalissimo derby culinario tu quale piatto decreteresti vincitore?

Mica facile! Di calcio proprio non mi intendo e sul riso sono in difficoltà perchè è uno dei miei cibi preferiti, in ogni sua forma.
Però certo che una buona paella…

Nonostante il settore della ristorazione vada a gonfie vele, in alcune parti del mondo il cibo è un bene che scarseggia. È una domanda insidiosa, ma non credi che a prescindere dalle facoltà economiche di ognuno il cibo dovrebbe essere un diritto? Come si può affrontare questa necessità secondo te?

Di certo questo è un argomento che non si può ignorare, nè discutere in poche righe. Credo che sempre di più cresca la consapevolezza – e con essa anche azioni concrete – della necessità di affrontare il problema da parte di chi lavora nel settore, sia chi fa informazione sia chi produce o cucina, e questo serve anche a diffondere presso il pubblico temi etici importanti la cui soluzione deve essere per forza collettiva e condivisa – modificando le nostre abitudini di consumo, se necessario, e soprattutto riducendo al massimo gli sprechi – anche se naturalmente spetta alle istituzioni e non ai singoli affrontarli in maniera sistematica e programmatica.
Però credo anche che non si debba cadere nell’estremo opposto “condannando” chi decide di spendere per una cena gourmet o una bottiglia di pregio: ricordiamoci che quello della ristorazione e dell’enogastronomia in generale è un settore importante dal punto di vista economico e quindi sociale, non solo una moda effimera. Personalmente, mi sento molto più in difetto a lasciare nel piatto del cibo scadente che ha però comunque un suo valore, che non a spendere cifre considerevoli per prodotti di ottima qualità o per delle vere e proprie esperienze gastronomiche, ripagando nel giusto modo il lavoro di artigiani, chef o vignaioli che svolgono anche un ruolo importante nel preservare culture, tradizioni e paesaggi.

Luciana la nostra intervista finisce qui! Grazie per la tua disponibilità e per aver condiviso con noi le tue esperienze e di aver soddisfatto le nostre curiosità.

Il team di Read or Diet.

Il Piccante: salute, cultura e sapore

Usato come condimento per oltre 6.000 anni, il piccante è diventato una delle spezie più importanti nelle culture culinarie di tutto il mondo. I deliziosi piatti che assaggiamo oggi fanno parte della tradizione antica di molti paesi. Con il fenomeno della globalizzazione, l’uso del piccante nell’ambito gastronomico e culturale ha stimolato un inizio di studi approfonditi che ne hanno analizzato le molteplici qualità.

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La capsaicina, componente attiva degli alimenti piccanti, irritante per i mammiferi, produce una forte sensazione di bruciore a contatto con la bocca. Principalmente e’ rilasciata da varie tipologie di piante, come meccanismo di difesa in presenza dei animali erbivori. L’effetto del piccante è stato accettato solo dall’essere umano, che ha creato il culto di consumo intorno ad esso, per il piacere del palato.

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Dopo la colonizzazione dell’America da parte di Cristoforo Colombo, i peperoni e altre varietà di cibi piccanti, si sono diffusi nel resto del mondo, creando una forte cultura intorno ad esso, come in India e nei molti paesi europei. Oltre ad aggiungere sapore, non esagerando con la quantità, porta molteplici benefici alla salute, come la prevenzione contro i tumori e aiuta a alleviare i dolori e stimola il rilascio delle endorfine.

Il piccante è una delle poche cose che ti rende felice e ti fa piangere allo stesso tempo. Usarlo in cucina ti farà scoprire una visione del mondo diversa!

 

Non i soliti food blogger

Il termine blogger (con tutti i suoi sottogeneri) negli ultimi anni è entrato più che mai a far parte del nostro vocabolario anche se però non tutti sanno cosa significhi e soprattutto come un individuo considerato tale dovrebbe comportarsi.

Con food blogger si intende una persona che dedica il suo tempo per condividere capacità e passioni culinarie con il mondo attraverso una propria piattaforma online. Inizialmente questi tipi di siti si limitavano a sostituire i classici ricettari grazie agli articoli offerti dai blogger, mentre oggigiorno con l’avvento dei nuovi social network quali instagram il concetto di food blogging è cambiato totalmente e probabilmente anche in peggio. Molte persone hanno cominciato a documentare le proprie esperienze culinarie attraverso foto e video ai loro piatti rovinando così il momento più sacro della cucina: il mangiare.

Per via di questa nuova piega ci siamo ritrovati ad avere ristoranti pieni di persone che godono del proprio piatto prima con il cellulare, pronti ad immortalare il momento e a condividerlo con i vari hashtag del caso, ed infine con le posate.

Di seguito trovate un video di “Kevin Freshwater”, ragazzo britannico diventato famoso sul web per i suoi esilaranti cortometraggi, nel quale va a rovinare i piatti dei suoi amici poco prima che scattino la foto per i social. Le facce delle vittime dopo aver subito lo scherzo non hanno prezzo.

Con questo articolo, noi di Read or Diet vogliamo far partire una campagna contro la nuova leva dei bloggers che invece di fornire notizie o curiosità riguardo a ciò che c’è dietro al piatto che fotografano si limitano esclusivamente a pubblicare la loro foto con un bel filtro preimpostato offerto da instagram ed una descrizione più corta degli hashtag a seguire.

Nel nostro sito non troverete belle foto di cibi impiattati con precisione maniacale, ma bensì troverete tutta la cultura che sta dietro a ciò che mangiamo, che non mangiamo e che vorremmo mangiare. Il nostro obbiettivo è quello di sfamare la vostra mente, per quanto riguarda lo stomaco però dovrete pensarci voi, magari andando a mangiare prodotti o piatti di cui vi abbiamo parlato.

Cucina Molecolare

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La cucina molecolare è un tipo di pratica utilizzata sempre più spesso negli ultimi anni. E’ una scienza che permette di trasformare la struttura molecolare degli alimenti senza fare uso di sostanze chimiche additive. E’ uno stile di cucina molto moderno, che si avvale delle discipline scientifiche.

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Si tratta di una disciplina nata nel 1969 con Nicholas Kurti, fisico dell’Università di Oxford e uno dei primi cuochi televisivi, dove appunto presentò alcune tecniche innovative come l’iniettare con una siringa del brandy nelle torte calde per non rompere la crosta. Questo studio fu portato avanti da Pierre Gilles De Gennes, premio Nobel per la fisica nel 1991, che collaborò con chimici, biologi e cuochi, per elaborare questa “teoria della pietanza”.

La nascita ufficiale è da stabilirsi nel 1990, quando questa disciplina sbarcò ufficialmente anche in Italia, con l’Atelier Internazionale di Gastronomia Molecolare tenutosi in Sicilia. In Italia vediamo come maggior esponente Davide Cassi, che in collaborazione con lo Chef Ettore Bocchia ha redatto il “Manifesto della Cucina Molecolare Italiana”.

La cucina molecolare si caratterizza per l’uso alimentare nella preparazione dei cibi di tecniche, strumenti e ingredienti insoliti, come: anidride carbonica, spume, azoto liquido, disidratatore alimentare, ultrasuoni e tanti altri. Ad esempio si utilizzano gli emulsionanti per legare ingredienti che da soli non potrebbero farlo. Come acqua ed olio per fare la maionese.Oppure si può utilizzare l’alcol per coagulare le proteine dell’uovo mantenendo lo stesso sapore, ottenendo un composto solido come se fosse cotto, ma con lo stesso sapore del crudo. Si può addirittura cuocere il pesce in una miscela di zuccheri fusi.

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In Italia abbiamo diversi ristoranti in cui poter provare questo genere di cucina, che solitamente dispongono di pochi coperti (probabilmente causa la complessità di realizzazione dei piatti). Di sicuro stiamo parlando di alta cucina, ma a prezzi piuttosto salati!

Non è solo sushi…

Il primo nigiri viene “creato” da Hanaya Yohei nel’800 a Tokyo: di base composto dal pesce pescato nei porti della capitale, esso ancora diverso dal sushi di oggi, in quanto l’assenza di frigoriferi richiedeva che il pesce fresco venisse marinato in salsa soia e sale, quindi essiccato ,salato, pulito e conservato in mezzo al riso cotto. La fermentazione del riso creava un ‘ambiente acidulo, questo metodo chiamato “Narezushi”, permetteva di mantenere il pesce per diversi mesi.

Prima della consumazione bastava scartare il riso fermentato, ma ben presto, l’accostamento acido del riso e il salato del pesce, diventò di gradimento per i giapponesi e non solo.

Nel pieno boom economico negli anni 80, la cultura giapponese si diffonde in occidente con enorme successo portando i manga, anime, tamagotchi, forse anche il karaoke , ma sopratutto il sushi, in tutta l’Europa e gli Stati Uniti. Cosi, dalle bancarelle di strada dei quartieri giapponesi, il sushi si sposta sulle tavole dei  ristoranti più glamour , diventando un vero e proprio emblema del fusion di culture ed etnie, che oggi caratterizzano la nostra realtà.

La differenza crea sempre una novità, e la novità ci piace. È lei che ci spinge a voler immergersi in un mondo gastromico cosi diverso dal nostro. “Oggi sushi?” È  quella domanda che ci porta sulla ricerca di un all you can eat piu vicino,oppure passare una pausa pranzo con i colleghi in un sushi bar della zona.

Ma ce lo siamo mai chiesti com’è essere un europeo e vivere 24 su 24 con i sushi e tutta la moltitudine culinaria che il “Paese del Sol Levante” offre o com’è la cucina giapponese in Giappone?

I giapponesi usano molto il riso, pesce e una grande varietà di frutti di mare, alghe, funghi, radici, soia, tofù e principalmente alimenti genuini e sani; spesso cotti a vapore o serviti crudi,come sashimi o gli tartaré.

La qualità dei prodotti gioca un ruolo importante, proprio come l’estetica dell’ impiattamento e il gioco dei colori di una prelibatezza tipica.

Ciò che mangi non deve essere solo buono, ma anche bello da vedere. Il processo del mangiare, in Giappone è paragonabile ad un rito, che viene mantenuto con la tradizione. La cucina giapponese è per l’eccellenza la regina del slow food.

“Credo di essermi cosi abituato a mangiare con gli bastoncini ,che non trovo più la differenza tra la forchetta. Con i bastoncini hai tutto il tempo di gustarti un piatto, apprezzi ogni dettaglio, puoi prendere pure un chicco di riso sul margine dell piatto ed è meglio che con le mani!”

Dice Alex, 40 anni, nato in Russia ,cittadino del mondo,si è trasferito dal Belgio 3 anni fa, nella città di Kyoto situata nella parte centro-occidentale del territorio giapponese.  Affascinato dal’ infinità di scelte “di palato”, che ti offre il Giappone.

“Giapponesi sono grandi gourmet.” -dice e non a caso la guida Michelin ha confermato Tokyo come capitale mondiale del gourmet per molti anni consecutivi. Ci sono tutte le sfumature di ogni cucina. Da tex-mex alla pizza napoletana.

Ma un italiano cosa ne pensa della cucina italiana in giappone?

“È sorprendente che in Giappone sappiano fare molto bene i piatti appartenenti ad altre cucine. La verità è che i giapponesi riescono ad imitare alla perfezione, ma hanno un modo di approcciarsi al lavoro completamente diverso dal nostro. Le emozioni sono tenute lontane,in modo tale che i prodotti creati siano sempre uguali.”

– Alessandro,26 anni ,un spirito libero ,italiano ,sangue  campano,attualmente lavora da qualche mese nel ristorante Colloseo, il primo ristorante italiano ad Osaka,aperto nel 1982.

E la pizza?

”Era migliore di molte pizze che ho mangiato in italia. Ma della cucina giapponese quello che ho saputo apprezzare di più è stata la carne, anche se il prezzo è equivalente alla qualità.” Alto, come rimane l’interesse di voler scoprire l’immensità della cucina giapponese.  Proprio per questo oggi la cucina giapponese è il patrimonio orale e immateriale del UNESCO.

Una piccola, ma rilevante parte della tradizione giapponese, che occupa un posto fisso nella nostra routine quotidiana, quella delle grandi città o piccole provincie, al nord o al sud, d’inverno o d’estate, a pranzo o a cena, lontani da casa o no.

 

 

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